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ANTOLOGIA
 
ABELINA (di Vincenzo Selvaggi)

I
Pingi, o pittor: La cetera
Io vo' toccar intanto:
apprendi dal mio canto
quel che hai da pinger tu.
II
Togli i colori all'iride
Prepara i tuoi pennelli,
dapprima i suoi capelli
pinga la tua virtù.
III
Sien essi morbidissimi
E somiglianti all'onda
Che la vicina sponda
Dolce baciando va;
IV
Quando un estivo zeffiro
La increspa mollemente,
mentre che il sol cadente
il suo color le dà.
V
Sia la sua fronte candida,
spaziosa, alta, serena,
ove si vegga appena
la rosa imporporar;
VI
Ma quel candore etereo
Che a riguardarlo india
Sol nella lattea via
Lo devi tu cercar.
VII
Pingi di vivo minio
Il sen di un fiordaliso,
quando dipingi il viso
col docile color.
VIII
Ma pensa che il difficile
A conseguir tant'opra
È di vedervi sopra
Che vi aleggiasse amor.
IX
Splenda la bocca piccola
Di bei rubini vivi,
ma tu déi spander quivi
quelle soavità,

X
Che sulle labbra infusero
Di lei le grazie istesse,
quando baciar sovr'esse
piene di voluttà.
XI
Tonda la gola, e gli omeri
Sian di alabastro eletto,
le cresca il niveo petto
flutto di gonfio mar.
XII
Ma tu vi devi spargere
Tanta bellezza e tale
Che il desiderio l'ale
Andasse ivi a fermar.
XIII
Di portamento nobile
Si mostri la mia bella
Ma sia leggera e snella
Sul volitante pié,
XIV
Tal che la veste ondivaga
sembri un legger tessuto
di vento, che un saluto
a lei volando dié.
XV
Pittor, se tu dipingere
Questi portenti puoi,
quei dolci sguardi suoi
chi li dipingerà?
XVI
Sono due stille cerule
Di pura onda marina
Ve' l'alma pellegrina
Cupida, errando, va.
XVII
Hanno un sorriso angelico
Che tutti vince i cuori,
ah! Quelli i tuoi colori
quelli non pingi tu.
XVIII
Dir non li sa che il palpito
Iddio si specchia in elli,
ah, lascia i tuoi pennelli,
lascia, non pinger più!

LA CALABRA VILLANELLA (di Vincenzo Selvaggi)

I
Perché cade negletto nel giardino
Il bel giacinto un dì sì rigoglioso?
Perché più non carezza il ventolino
Il bianco giglio e il tulipan vezzoso?
Già l'ortica superba e il pigro spino
la verde fronda sua vi dispiegò;
il variopinto, il florido ortolino
perché la villanella abbandonò?
II
So far candidi lini col bucato,
so mungere e tosar le pecorelle,
fo col mio fuso il più gentil filato,
con diligenza intesso le fiscelle;
so rendere un giardin di fiori ornato,
scerno l'ore dal sole e dalle stelle,
suono la piva e ancor con melodia
canta note d'amor la voce mia.
III
Che più mi lagno? Se colui d'amore
Qualche volta di me si fosse acceso,
sarebbe stato il dì che dal calore
oppresso, al fonte mio s'avvicinò,
quando la villanella,il braccio teso,
con la brocca dell'acqua il dissetò.
 

IV
.....................
Ed egli mi vide, la brocca mi rese,
e grazie, carina, mi disse cortese,
carina mi disse, mi rise, mi affise,
poi ratto il destriero fumante spronò.
Sul latteo cavallo con grazia ei volava,
e dentro il tesoro del suo bel crin d'oro
prigione il mio spirto con lui se ne andò.
Da quel giorno mio padre ognor domanda:
che tieni, figlia? Ed io mi taccio ognor;
se il cuore rispondesse alla domanda
amor mi brucia, a lui direbbe allor.
V
Ma già quando rideva il verde aprile
al cucul domandai che vita avrò?
E il cucul mi rispose in tono umile
Tre volte? ahi sol tre anni mi segnò!
Fiorì due volte il melo, e l'altro giorno
Tornai sul monte, e al cucul dimandai:
dimmelo, cucul mio nel tuo ritorno
la villanella afflitta rivedrai?
-Tacque l'augello- o padre, o vecchierello,
quando la figlia in tuo sostegno brami
invan, povero padre, invan la chiami!
 

SANTA MARIA DE' LONGOBARDI - DETTA DELL'ILICI (di Suor Clarice Selvaggi)

1
Nel rio di Venere
Del Longobardo
Fiero e gagliardo
Bevve il destrier.
2
Qui dei lor bardici
Canti gli spechi
Ripeter gli echi
S'udirô un dì.
3
E qui del fervido
Lor culto un giorno
Piccolo e adorno
Tempio s'alzò.
4
Fatto alla vergine
Tra spine e cardi
De' Longobardi
Pria si nomò.
5
Poscia ne' secoli
Tutto svanio
Coprì l'oblio
Quel nome ancor.
6
Ma la memoria
Di quel tempietto
D'e' miei nel petto
Sacra restò.
7
La pia, la nobile
Famiglia Fera¹
Nel luogo, ov'era,
Lo rialzò.
8
E poiché triboli
V'erano e felci
Maria dell'elci
La intitolò.
9
Sopra recondita
Valle profonda
Corsa dall'onda
Del Fullon sta.

10
Tutti alla vergine
Corron devoti:
Le appendon voti
L'offrono fior.
11
Nel dì festivo,
Sacro al suo nome
Ornan le chiome
Le donne e il sen.
12
E nello spiano
Quanto un'aiuola,
Fan fericciuola
Rose e bambin.
13
Ecco l'origine
Di quel tempietto,
Oh! Benedetto,
Chi lo formò.
14
Quanti prodigi,
Quanti portenti
Vider le genti
Io non dirò.
15
Allorché scesero
Greci e Normanni,
Cagion d'affanni
E di terror.
16
Ma corse il popolo,
Pregò Maria,
E quella ria
Orda fuggì.
17
Cinsero i Calabri
L'acciar per Cristo,
Pel gran conquisto
D'Asia partîr.
18
Quivi rifulse
D'un Pier Selvaggio²
Di gloria un raggio
Che onor ci diè.

LA VISIONE (di Suor Clarice Selvaggi)

E questa notte vid'io la madre mia,(1)
in dolce e cara vision d'amore!
ad un soave riso il labbro apria,
mandavan gli occhi suoi luce e splendore!
era bella e parea scender dal cielo
avvolta tutta di sidereo velo!
Un angelo parea che aperte l'ali
si libra sulle sue penne immortali.

Sotto quel velo la sua forma snella,
parea l'astro d'argento in nube avvolto,
sul seno le scendean le vaghe anella;
era quello il suo crin, quello il suo volto!
Oh gioia, al fianco mio venne e s'assise:
le dissi:- Madre! - ed ella mi sorrise!
Mi sorrise gentile ed amorosa,
spirava intorno un'aura odorosa!

Parea dicesse con sua voce esile:
-hai voluto esser sposa del Signore!
-ed io chinai la testa in atto umìle,
non potevo parlar, batteami il core!
Io mi beava in quel celeste viso,
gustavo gioie inver di paradiso!
Dopo lungo silenzio alfin disciolsi
le labbra e questo a lei parlare io volsi!

Madre, tu sai quanto ti amavo, e intanto
dagli occhi mi sparisti in un baleno!
Dal dì che ti perdetti io vivo in pianto,
e l'immagine tua porto nel seno!
Madre, lenisci il mio crudo dolore,
guardami, o madre, inebriami d'amore,
negli occhi tuoi, negli occhi tuoi quest'alma
trova pace e riposo e requie e calma!

In questo la sua man ella mi stese
e disse:- Oh! cara, oh benedetta Bice!...
Allor più del suo foco amor mi accese,
caddi in ginocchio, in men ch'il labbro il dice,
mi bacia poscia, ed io su i suoi vivaci
labbri stampai mille, amorosi baci!...
Mandala un'altra volta, o mio Signore,
pascola pur di sogni questo cuore!!!


(1) Vide in sogno la propria madre, Rossella dei baroni Vercillo di Rende, morta giovanissima, due anni prima del padre Giovanni, e cioé nel I834. Beatrice era legata da un grande affetto ai genitori e alla famiglia e rimase profondamente colpita da una serie di lutti che si abbatterono, a distanza di breve tempo l'uno dall'altro,sulla sua famiglia.(F.S.)

AD UN FIORE (di Pasquale Candela)

1
Pallido fior; gentil dono secreto
Di puro e casto amore;
tu vago un giorno a me venisti, e lieto
i ti posai sul core:

2
Non avea spine il morbidotuo stelo,
tue foglie erano olenti;
v'eran due stille ! Eran stille del cielo,
o perle d'occhi ardenti ?

3
Chi sa ! La bella mano che ti raccolse
Al palpito del petto
Forse tremò !Forse in pianto si sciolse
Il soffocato affetto!

4
Arido or sei! Posando, o fiore, in questo
Sen di foco infiammato,
oh! Come tua beltà s'avvizzì presto,
quasi dal sol bruciato:

5
Ma benché spento, e già ridotto in polve
Io pur ti serbo ancora,
come santa memoria, a cui si volve
il mio pensiero ognora.

6
Era bella una sera! Per l'arcata
Volta azzurra del cielo
Scintillavano gli astri, e un'aura grata
Movea dei fior lo stelo:

7
Accanto a lei, che di beltà vincea
Tutte le cose belle,
a me parea che fosse ella la Dea
di quelle vaghe stelle.

8
Perdono, o Cinzia! Da l'argenteo volto
Tu piovi un casto riso;
ma negli occhi di lei quanto è raccolto
splendor di Paradiso!

9
Ed io da' suoi begli occhi una secreta
Luce bevea di vita;
l'alma più non sentia la fragil creta,
in estasi rapita!

10
Ohimé,diletta mia,perché perenne
Non fu quella beata
Ora di santo gaudio, e di solenne
Fede d'amor giurata ?

11
Ah! Tu grande, tu ricca e nobil sei,
e fra le aurate sale,
passi cantando, come fan gli augei,
questa vita mortale!

12
E quando vaga d'aure più tranquille,
la danza avvien che schivi,
solitaria colomba, entro tue ville,
fra boschetti rivivi.

13
Ma io povero,sai, d'ogni fortuna
La vita faticosa
Traggo a stento, né speme arride alcuna
A l'anima affannosa!

14
Eppur quanto di affetti ampio tesoro
Qui, in questo sen si spande!
Dimmi non vale più del lucid'oro
Un cor nobile e grande?

15
Spesso, diletta mia, sovr'aureo cocchio
Va il vizio decorato;
esce da l'orgia, e a lui piega il ginocchio
il popolo affamato!

16
Ma d'un tugurio là sospira in fondo
La virtù sventurata;
e il Genio, che dà moto e vita al mondo
passa la vita obliata!

17
O secolo banchiere! Tu non hai
Per l'anime gentili
Un sorriso d'amor! Pregiar non sai
Le tue virtudi umìli.

18
Ma invidiarmi certo tu non puoi
La voluttà ch'io sento,
baciando il fior, che toccò i labbri suoi,
ed or nel petto è spento!

I FRATELLI BANDIERA E CONSORTI (di Salvatore Cristofaro, 1947)

1
"O Brezia,o de l'Italia
"terra di giogo schiva,"
"dove la fiamma nutresi
"di libertà più viva;
2
"a te ci appella il dubbio
"suon de la tua fortuna,(1)
"de la futura augurio
"libera Italia ed una ! "
3
Così sciamando unanime
ecco sul preso lito.
've il Neto al Jonio aggiungesi,
stuol di garzoni ardito:
4
Su le lor fronti tacite
di un gran pensiero è il segno:
far de la sciolta Ausonia
libero e unito un regno. (2)
5
Qual sotto cielo nubilo
lampo talor traluce,
tale entro il fosco secolo
passò per lor la luce,
6
O generosi, o spiriti
gentili, io vi saluto !
Ma il nostro cupo fremito
Oggi di terra è muto.
7
Surse, è pur ver, terribile
di libertade un suono,
che minacciò di frangere
a re Fernando il trono;
8
Ma pochi i prodi furono
che al convenuto squillo
in riva al Crati alzarono
il tricolor vessillo.
9
E gl'infelici caddero
in troppo inegual pugna:
squarciò il mio Salfi esanime(3)
già dei cavalli l'ugna.
10
Altri di duro carcere
sotto la volta oscura
pensosi i ceppi scotono
de la comun sventura.
11
Tu pur, Tu pure, o nobile
cantor d'Enrico,(4)sei
segno al furor degli empi
fra orrendi lacci e rei !
12
Altri raminghi ed esuli
da le natie contrade
si tolsero a l'arbitrio
de le inclementi spade.
13
A che gridar che surgano
a genti incatenate,
se ancor sanguigno è il lastrico
del suol, che voi calcate ?
14
Indomito, magnanimo
affetto in lor favella:
dei Calabresi martiri
seguir l'arcana stella.
15
Voce si spande: destati,
Italia, il mugghio ascolta
de' generosi Calabri,
insorti un'altra volta.
16
Col vento ripeterono
quell'eco che s'immila,
e il Jonio mar, che mormora,
e la boscosa Sila.
17
Un incessante palpito
di tutti occupa il core:
un dubbio atroce, un'aura
di trepido dolore!
18
Giunge al tiranno il fremito
e qual ferito un angue,
gridò, Nuovo Tiberio:
"sangue si sparga, sangue!"
19
E nuovo sangue e martiri
nuovi l'eterna e santa
di libertà fecondano
già sempre verde pianta.

20
Siccome veltri inseguono
lor preda, ecco su l'orme
de gl'inesperti movere
I compri sgherri a torme.
21
Ohimé ! da tai carnefici
chi farà schermo a voi ?...
manda, arpa mia, di gemiti
suon sui traditi eroi !
22
Ahi fiero orror ! tu improvvido
Moro gentil, ferito
del sangue mobilissimo
primo tu bagni il lito.
23
E tu, Miller, di viverti
cessi !... ma la tua morte
gli amici tuoi non piangono,
invidiano tua sorte.
24
In breve anch'essi vittime
di un crudo fato istesso,
vedrai nel cielo scorrere
al tuo fraterno amplesso.
25
Chè pur fratelli, fattisi
Caini avversi a quelli,
feroci non aborrono
da sangue di fratelli.
26
Ecco giù nel tristissimo
vallone di Rovito
le vittime e i carnefici
pronti a l'infame rito.
27
Sereni, imperturbabili
volgon d'intorno i rai,
chi muore per la patria,
sciamando, ei visse assai!
28
Sul fato lor di un popolo
trema commosso il core...
ei visse assai, bisbigliano,
chi per la patria muore !...
29
Quando di nove subito
colpi echeggiò la valle...
ed ecco di cadaveri
ingombro il tetro calle.
30
Del Crati l'onda prossima
crebbe di sangue rossa:
mugghiò, s'avvolse in vortici
in suo terror commossa.
31
Lingue di vento rapide
con fischio ignoto e fosco
lambir le centenarie
cime del vicin bosco.
32
Oh ! perché tutta Italia
non gridò allor vendetta ?
perché , o Signor, su gl'empi
non cade tua saetta ?
33
Pace, o grand'alme, il termine
de' fieri alti decreti
aspettiam per rendervi
pur di vendetta lieti.
34
Or fra la densa nebbia,
che l'avvenir c'involve,
a interrogar noi taciti
verrem la vostra polve.
35
La forza del martirio
apprenderem da quella:
e come per la patria
anco la morte è bella.
36
Maturerem la fervida
speme, che ci affatica,
veder redenta in soglio
la comun madre antica.
37
Ed ai risorti posteri
di nostra Italia intera
tramanderemo i Bruzii
col nome de' Bandiera.
38
Né per mutar di secoli
fia che si scordi l'era,
've ognora il sacrificio
magnanimo ch'impera.
 
 
>
(Da Canti Nazionali, Napoli Stab. Tip. Dell'Ancora 1867)
Note dell'autore
1) La notizia della rivoluzione della provincia di Cosenza scoppiata ne' 15 di marzo del 1844.
2) Vedi il Proclama dei Bandiera in Atto Vannucci e nella vita degli stessi, scritta da Felice Venosta, nel quale apparisce chiaro il pensiero politico di quella spedizione.
3) I Calabresi Francesco Salfi, Michele Musacchio, Emanuele Mosciaro, Francesco Coscarella e Giuseppe De Filippis morirono combattendo nella giornata del 15 marzo in Cosenza 1844. Poscia per sentenza della commissione militare furono fucilati agli 11 di luglio dello stesso anno Nicola Corigliano,Antonio Rao, Pietro Villacci,Giuseppe Camodeca, e i fratelli Giuseppe e Scandebeg Franzese.Ad altri 14, fra cui il mio amicissimo Federico Franzese, ancora superstite, fu commutata la pena di morte in quella dell'ergastolo. Quando i Bandiera udirono i colpi di moschetto, che spensero le nobili vite dei nove Calabresi, abbracciandosi scambievolmente coi superstiti calabri, condannati alla pena del capo, dissero: "Oh! Quando i Calabresi sanno così morire per la patria, l'Italia è fatta!" E furono profeti.
4) Domenico Mauro insieme a Vincenzo Selvaggi,con il Vecchio Anacoreta e a Vincenzo Padula, con La Sambucina fu autore di un poemetto in versi sciolti dal titolo "Errico".
 

NINNA-NANNA (di Salvatore Cristofaro, Natale 1864)

1
Chiudi gli occhi, e dormi, o bello,
mio divino Bambinello,
scorderai col sonno almeno
che tua culla è d'umil fieno,
che la terra è un fosco orror;
dormi,o figlio, o mio Signor.
2
A difenderti dal gelo
Verran gli angioli dal cielo:
e se dormi qui nascoso,
veglieranno il tuo riposo,
scioglieranno inni d'amor;
dormi, o Figlio, o mio Signor.
3
A te innanzi riverenti
pingeran sogni ridenti,
e vedrai dalla tua cuna
iri, stelle, sole e luna,
bei tramonti e lieti albor;
dormi, o Figlio, o mio Signor.
4
Ma tu piangi... Un garzonetto
Porta un pomo ed un agnelletto:
prendi questo, e lasci quello,
che vuoi dirmi, o Bambinello ?
Ahi! memoria di dolor...
dormi, o Figlio, o mio Signor.
 

5
Ti richiama in mente il pomo
la caduta del prim'uomo;
l'agnel dice, che per noi
vero agnello, morir vuoi;
oh! miracolo d'amor;
dormi, o Figlio, o mio Signor.
6
Chiudi gli occhi, o Redentore,
vera vittima d'amore:
le tue pene, la tua morte
aprirai del ciel le porte;
ah! perché tu vegli ancor ?
Dormi, o figlio, o mio Signor.
7
Lassa me!... Ti tradiranno,
come reo ti uccideranno!
Ma trafitto su di un legno
ergerai di gloria un segno,
de la morte vincitor;
dormi, o figlio, o mio Signor.
8
Ah! tu piangi...,o mio tesoro,
t'odia il mondo ed io ti adoro:
Tu per questo già sei nato,
con l'amor vinci il peccato;
Tu sei Dio, sei Redentor,
dormi, o Figlio, o mio Signor.
 
(Da "Armonie Devote" di Salvatore can. Teologo Cristofaro tip. R. Riccio, Cosenza 1889)

PASTORALE (di Salvatore Cristofaro, Natale 1855)

1
Gia d'Efrata si svegliano i pastori,
al suono allegro dei celesti cori:
pastorelli, or via correte;
in Betlemme troverete
leggiadro e bello
i pochi panni avvolto un bambinello.
2
Affrettano il lor passo, e su pei prati
Veggono in pieno inverno i fior già nati;
d'uve mirano un tesoro
rosseggiar dai tralci d'oro!
E ognun stupito
Sente tremar di gioia il cor rapito.
3
E' nato,è nato! Come lor fu detto,
trovan su poca paglia il pargoletto!
Oh che festa! Oh che allegria!
è dal ciel sceso il Messia;
su via cantiamo,
al Dio bambino i nostri dono offriamo.
4
Son povero pastor! Ti dò il mantello
A riparo del freddo,o Bambinello;
ed io brucio la mia siepe
per scaldare il tuo presepe:
a tanto affetto
par che sorrida loro il pargoletto.
5
Un vecchio che tremante s'avvicina,
la mia capanna, esclama, è qui vicina,
Bambinello, vieni meco,
meno orror di questo speco
ha il mio abituro,
dove dai venti poserai sicuro.
 

6
Un fanciulleto poi pieno d'amore,
si scopre il petto, e gli offre il picciol core:
non ho panni, non ho agnelli,
non ho fior,né pomi belli:
ho il cor ch'è mio,
tutto tel dono, o pargoletto Dio.
7
Chi del bambino i begli occhi rimira,
oh quanto è caro! dice, e poi sospira:
Chi ad un grappolo il somiglia
D'uva fresca che in vermiglia;
e chi è d'avviso
aura da lui spirar di paradiso.
8
Chi il più soave e il più gentil concento
Trae tutto lieto al pastoral strumento:
chi il saluta genuflesso
dai profeti Re promesso;
e chi si affretta
portargli fior di latte o un'agnelletta.
9
O fanciulle, che a lui fate corone,
non v'intrecciate il fior di passione:
gli potrebbe il mesto fiore
ricordare il suo dolore...
Spargete rose,
o verginelle del Giordan vezzose.
10
Oh! beati i devoti pastorelli,
che vider di Gesù gli sguardi belli!
che l'udir da la pia Madre:
chiamar Figlio, Sposo e Padre!
Così anch'io
La sorte avessi in ciel di veder Dio!
 
> (Questa pastorale e la Ninna Nanna, musicate da un musicista dilettante del luogo, tal Vincenzo Talarico, furono cantate dal popolo, in S. Marco, durante le festività natalizie, per vari decenni.)

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