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LA POESIA DI SUOR CLARICE SELVAGGI
relazione della prof.ssa Olga Fiorillo Mulino
S.Marco Argentano, Biblioteca Comunale, 24 maggio 2001


Ho accettato volentieri l'invito a presentare le poesie di Suor Clarice Selvaggi perché, se è vero com'é vero, che la storia di una città o di un paese è pensiero, ricordo, movimento, è il passato che si fa presente e rivive, ho ritenuto doveroso far conoscere, dopo un secolo e mezzo e più, un'illustre figlia di questa nostra città, che, pur vantando un'eredità culturale di grande valenza, spesso mette nell'oblio tanti suoi sublimi ingegni.
Nel contempo ho fatto una riflessione: ma che senso ha, in una società che afferma lo strumentalismo edonistico ed impone la morte del sentimento, in una società in cui l'uomo va smarrendo la sua interiorità, in cui sembra inquinarsi vieppiù la fonte del credere e dello sperare, che senso ha parlare di poesia, fermarsi su versi emotivi, espresione di delicata femminilità e di profonda sensibilità? Ho trovato la risposta a questo mio interrogativo, nell'espressione di grandi personaggi: Voltaire scrisse che la poesia è necessaria all'uomo perchè i versi sono la musica dell'anima.
Chi non ama o non fa poesia è uno spirito arido, pesante che non si stacca dal crudo materialismo e non vive con fantasia e con passione, che sono invece necessarie per glorificare la vita ed intenderne, nella giusta entità, il valore.
Ungaretti affermò che la poesia è la sola capace di mettere in luce i misteri che sono in ognuno di noi e Quasimodo disse che, per sentirsi poeti, la poesia dev?essere un sacrificio che deve durare tutta la vita. La poesia nasce da effusioni vitali provenienti dal mondo interiore di chi plasma e realizza paesaggi di verità. Mi sono così resa conto che parlare della poesia di Suor Clarice Selvaggi potrà esserre, in questo mondo scombinato, un invito al ritorno di un mondo più umano. Con Suor Clarice, del resto, siamo nel giusto. La sua è poesia intimistica: trae ispirazione dalle tragedie familiari, ha come tematica la riflessione sul suo mondo interiore, è ricerca interiore per varcare la speranza e fluisce fiduciosa nell'esaltazione del divino. È storia dell'anima, è preghiera, è confessione, è colloquio con Dio. È la pienezza del Mistero che si realizza non con simboli ma con effusioni di cuore, è l'idea cristiana che si è già incarnata nella vita e si svolge in tutta la sua magnificenza. Sicché la sensibilità lirica della quale è musicalmente dotata, il modulo espressivo che le consente di emergere dalle suggestioni che la vita le offre, quel suo sentire di amare in un silenzio tra il religioso ed il mistero, fanno di Suor Clarice una poetessa erudita, di un'erudizione che impreziosisce e non appesantisce il vero, una poetessa significativa, che riesce ad immergersi nel suo mondo interiore.
Sono i suoi versi dolci tracciati, percorsi che raggiungono il cuore e, tramite il sentimento, si realizzano in una dimensione non visibile materialmente ma vivibile in questa nostra esistenza, sconfinando in essa col pensiero. Ma prima di dire di più e meglio della poesia di Suor Clarice è necessario un cenno al suo fugace, intenso, drammatico corso di vita.
Nacque, Maria Beatrice Teresa Selvaggi, in S. Marco Argentano, dal Barone Giovanni e dalla N.D. Rosina Vercillo alle ore 17 del 21 ottobre del 1820 e morì alle ore 18 del 28 ottobre del 1843. Visse quindi 23 anni, 7 giorni ed un'ora.
Il marchese Davide Andreotti Loria, sul "Calabrese" del 1881, così ricordò l'alba della vita di Beatrice: "Chi è costei che apparisce simile all'alba, bella come la luna, pura come il sole? Ella è la colomba di S. Marco Argentano, discesa dai giardini del cielo nella valle del Malosa e del Fullone. Ella non è unica a sua madre ma è singolare a questa fortunata che la partoriva... le fanciulle l'hanno veduta e l'hanno proclamata per una nuova tortorella delle Calabrie, le donne di un'altra età la conosceranno e la celebreranno beata. "
Bellissima, fu, fin da piccola, aliena dal far mostra di sé, fu sempre umile, modesta, caritatevole. Vivacissima di ingegno, fin dalla fanciullezza improvvisò versi sicché i genitori e i fratelli la riguardavano con rispetto.
Le sue giornate trascorrevano nella continua preghiera e nello studio. Ebbe com'era consuetudine delle nobili famiglie del tempo, due istitutrici che con la fanciulla esaurirono presto tutto il sapere ed ella, avida di apprendere, studiò latino e greco con lo zio paterno Pietrantonio.
Riuscì ottimamente in ambedue le discipline si da comporre abbastanza bene in ambedue le lingue.
Ma si sentiva chiamata soprattutto per il Cielo sicché non aveva ancora dieci anni e volle vestire l'abito della Madonna Immacolata, culto introdotto nella Congrega di S. Giovanni Battista dal suo antenato Barone Francesco Selvaggi, nel 1590.
Iniziò presto a comporre la prima parte di "La Ghirlandella d?odicine sacre", una raccolta di poesie delle quali oggi ne restano una cinquantina, raccolte dal Prof. Francesco Selvaggi ed ancora inedite.
Maria Beatrice intitolò questa prima parte "Cinque giorni", ma, mentre in essa eprimeva i suoi sentimenti, il suo cuore di giovinetta tredicenne conobbe il dolore per la morte di un suo fratello maggiore, Baldasarre, di soli 19 anni.
Per lui compose un sonetto. Dall'angoscia per la perdita di questo suo caro fratello fu sollecitata di più alla preghiera ed alla composizione di "Astri", la seconda parte della Ghirlandella.
Ma nell'avito palazzo i drammi i susseguirono: nel gennaio del 1834, morì la madre e, dopo qualche giorno, avendola sognata, estrinsecò il suo dolore e il suo affetto filiale in una poesia dolcissima: "La Visione".
In questo medesimo 1834 compose la terza parte della Ghirlandella: "I fiori".
Nel 1835, in seguito ad un terribile terremoto, verificatosi in Calabria in quello stesso anno, compose una poesia ammirata da tutti gli intellettuali del tempo per l'afflato lirico dimostrato e per la ricchezza d?idee umanitarie. Compose ancora la quarta parte della sua opera e, nei principi del 1836, per la morte della giovane regina delle Due Sicilie, Maria Cristina di Savoia, compose una dolente elegia. La si voleva mandare alle stampe ma Beatrice si rifiutò, eclamando:" Io non vo' che il mio nome si renda noto comecchesia; io mi debbo viver negletta come ad una suora si conviene ed io debbo esser tale!".
Celava, infatti, a tutte le sue compagne le poesie, meno che al fratello Vincenzo che di lei era orgoglioso e del quale ella fu consigliera ed ispiratrice. Via via la "Ghirlandella di odicine sacre" si arricchiva di altre parti cui l'autrice dedicava il suo tempo più prezioso.
Presa sempre dal profondo pensiero religioso, indusse il padre a restaurare e ad arricchire di arredi sacri la chiesa di S. Caterina.
Ma se inconsolabile per la giovinetta Beatrice fu il dolore per la morte del fratello e della madre, fu maggiormente cupo quello per la morte del padre.
Grandi tragedie familiari, dunque, che le fecero scrivere: " Quante volte mesta e tacita, rimirando il mio Sammarco- muta e immobile rimango- e di duol il cuore é carco.- -Penso ai morti, e volgo il guardo anelo- per rivederli in Cielo. "
Nel 1837, compose le "Poesie politiche" segno della sua affettuosa partecipazione agli avvenimenti della Patria. Intanto cresceva e si diffondeva in Calabria la fama della sua bellezza e delle sue virtù. I Più nobili e ricchi chiedevano la sua mano, ma ormai sentiva così forte la chiamata di Dio che al fratello Vincenzo manifestò l'idea, in lei mai sopita, di farsi suora di S. Chiara e di andare a vivere nel convento delle Clarisse di S. Marco Argentano, convento nel quale tanta fama di sé aveva lasciato una sua prozia alla cui memoria dedicò due sonetti.
Entrata nel convento, la sua giovane vita trascorse tra la preghiera, gi studi classici ed ecclesiastici, il lavoro e .. il comporre altri sonetti.
Negli esercizi religiosi del laboriosissimo noviziato, ultimò la sua "Ghirlandella" e, nelle ore libere si dedicò al ricamo, al disegno, alla musica senza mai tralasciare la poesia. Il Monastero divenne il suo mondo.
Vestì l'abito di S. Chiara il 30-09-1838, non si rammaricò di sacrificare le sue trecce ma si mostrò serena come mai era stata.
Nel 1841 fece la solenne professione religiosa, fu consacrata da S.E. il vescovo Mons. Felice Greco e lasciò il suo nome per quello di Suor Clarice.
Per tale suo gioioso avvenimento compose tre liriche: "La suora", "il Velamento", ed "Il mio stato".
Nel convento, la cui chiesa arricchì di numerosi arredi, si diffuse quell'aria di santità da lei emanata tanto che l'abate Vercillo, dopo aver avuto con lei un lungo colloquio, così la lodò: "Ora che ho ammirato le eminenti di lei virtù morali ed intellettuali, convengo che impongano in chiunque l'ammirazione... ".
E suor Clarice intanto,divenuta più ricca di conoscenze, senza trascurare le cure religiose, riordinò le sue poesie con "Cantiche" e "Sonetti", completando così la sua raccolta. Ma l'eccessivo lavoro letterario, il continuo pregare, i rigorosi digiuni ne minarono il fragile fisico; fu costretta a lasciare il monastero per trasferirsi in campagna ed al mare.
Fu allora che, presaga della fine, scrisse, rivolgedosi alle consorelle: " Suore, addio! di me infelice- non vi prenda indegno oblio- non so il cor che mi predice - mentre vado ai bagni al mar...- Ma funesto è questo addio-io mi sento, o Dio, mancar! -Parto si, ma le mia brame- son rivolte al sacro asil!-" Patetico addio, dunque, alle compagne di preghiera ed al suo Monastero!
Divenendo il suo stato di salute di giorno in giorno più precario, i suoi la riportarono nel palazzo avito ove si spense il 28 ottobre 1843, mentre, in estasi, pregava quell'Immacolata Concezione che tanto aveva amato. In S. Marco fu unanime il compianto e quasi tutti gli intellettuali dell'epoca dal Padula, al Marchianò, al Candela le dedicarono commosse odi.
Fugace dunque, ma intensa l'avventura terrena di Suor Clarice così che è facile capire il senso della sua poesia, una poesia di solitudine interiore ma tutta piena della presenza di Dio e della Madonna; la poetessa imprime nel verso ciò che altrimenti svanirebbe come svaniscono le nostri interiori voci di meditazione quando,passato il momento di grazia, le tragedie familiari ci coinvolgono nel loro turbine vorticoso.
Ella sente prorompente l'afflato lirico, ma il verso non è mai impietoso: le sofferte esperienze e la serenità del chiostro si compongono armoniosamente attenuando tristezza ed angoscia. Chiede consolazione, Suor Clarice, a Dio: "come il fior che abbassa il capo-chiede aita ai rai del sol-tale l'alma oppressa e lassa- va cercando a Dio consuol." Attinge speranza dalla Croce: "l'altro dì genuflessa orava,orava,- mirando affiso in croce il mio Signore.-il cor nel petto tutto mi balzava- bruciar sentiami di celeste ardore-l'anima mia dal corpo si staccava- Signor tu nutrisci la fede e la speranza- tu dischiudi le fonti del diletto,-tu ai travagliati dai vittoria e palma!
È preghiera la poesia di Suor Clarice, una preghiera che avvolge, attorno ad una fede intatta, l'anima capace di tutto capire. Hanno i versi di Suor Clarice, la dolcezza tenue e struggente dei tiepidi tramonti sammarchesi, chissà quante volte ammirati dai balconi del paterno palazzo prima e dalla cella del chiostro poi.
E nel ricordo del padre, il canto si snoda con accenti di squisita liricità: " oh padre, tenero,- oh alma cortese,- gloria e decoro del nostro paese !- qual crudo destino- ti tolse la vita ?- di tutti il consuolo, il pane tu eri !- bastavi tu solo- nei tempi più fieri.. O padre pietoso, - perduto mio bene- tu goda riposo- nelle aule serene ! ". E gli stessi accenti di liricità sono in "La Visione", un canto dedicato alla madre.
La vede in sogno una notte E... " Questa notte vid?io la madre mia...- era bella e parea scender dal cielo- tutta avvolta di sidereo velo- Un angelo parea che aperte l'ali, si libra nelle sue penne immortali. " E poi nella nostalgia di lei : " Madre, -canta- tu sai quanto ti amavo- e dagli occhi mi sparisti in un baleno.-Dal dì che ti perdetti io vivo in pianto- e l'immagine tua porto nel seno... - Madre, guardami, inebbriami d?amore !...In questo la sua man ella mi stese- e disse:- Oh! cara, o benedetta Bice!...- ... caddi in ginocchio, in men ch?il labbro il dice,- mi bacia poscia, ed io sui suoi vivaci labbri stampai mille amorosi baci!.." E conclude: "Mandala un'altra volta, o mio Signore, pascola pur di sogni questo cuore!"
Possiamo spiegarci così il sentimento di devozione a Maria che sì larga parte ha nell'ispirazione e nella poesia di Suor Clarice Selvaggi. Dall'affetto materno terreno all'affetto materno celeste il passo è fatalmente conseguenziale. Un rifugio ed una speranza che si dissolvono nel tempo ma che si ricompongono per suor Clarice, nell'eterna validità della promessa divina.
Alla mamma terrena, dissolta nella polvere si affianca, nella gloria di un'eternità senza confini, la mamma celeste che placa, consola, riempie il vuoto. E a tal punto il canto si leva gioioso: "T?amo,sì, t?amo...- ardo per te di vivo fuoco interno,- ardo d?amor, di speme e di desio,..." e continua: "Negli occhi tuoi son tutti i miei destini- tutti gli affetti miei, tutti i desiri.- Io vedo gli occhi tuoi in ogni loco,- tanto mandano raggi in ogni oggetto- e più fulgido del sol che sempre miro,- splende il tuo viso e tutta mi ravvolge- sembra aura odorosa il tuo sospiro- che strugge il corpo in santità travolge... " Poesia che non nasce per impegno voluto o studiato ma spontaneamente.
Suor Clarice non ricerca gli effetti, la sua poesia non è frutto di cesello ma è epressione di agilità di pensiero divenuto parola duttile e rivelatrice di una profonda ricchezza interiore.
È una poesia vera, senza aggettivi, espresione senza orpelli, preghiera senza finzioni, confessione essenziale.
Vorrebbe correre nel tempo, la nostra poetessa, per raggiungere il traguardo e e nell'attesa, la domanda ansiosa: "Dimmi, o Signor, quant?altro di vita ancor m'avanza? Chiamami a te nella celeste Stanza!..." E nella speranza: "Nella gioia del mio cuor, o Signor, t?esalterò! e del giorno in tutte l'ore sempre te salmeggerò... "
La poesia, via via, si fa fede, amore e speranza; il discorso lirico si svolge a gradi, con semplicità ma con fermezza, in un clima di serenità nutrito da significative visioni di tenerezza. l'autrice non si sottrae mai all'ispirazione ma sempre l'asseconda, non spezza mai il nesso unitario della sua verità interiore. l'animo suo delicato s?incanta dinnanzi al biancospino che "con la sua fragranza dà al cuor tanta speranza", dinnanzi al sorger del sol "che fuga le tenebre del nostro duol", è colpito dal ragno che avvolge nei suoi vincoli le mosche e coglie l'occasione per scrivere: "È ragno Satana e son mosche l'alme- cui tarpan l'ali- gravose salme- e avvien che improvvido- qual'uom v?inciampi- dall'empie fauci non fia che scampi;"
In una bellisima romanza la poetessa esprime pietà per il profugo e il suo canto si leva poi ardito contro i falsi poeti che "amano Dio ed obliano Dio- amano la forma ed obliano il concetto che hanno perduto lo ben dell'intelletto.. " Contro Giuda al quale grida: "Tu l'hai tradito, tu l'hai colpito- Va, maledetto, perdon non v?è.. " Un canto "La fine di Giuda" inquadrato nel più rigoroso dogmatismo che è testimonianza della grande conoscenza religiosa dell'autrice che scopre in tutto ed in tutti quell'essenza particolare che possa consonar con la sua acuta sensibilità.
Non aveva che sedici anni quando spegnevasi Maria Cristina, regina delle due Sicilie e di questa ne compianse l'immatura perdita in una stupenda elegia così come il sonetto: "In morte di Dante", testimonia il suo amore per la classicità ed è memoria esaltante di un passato culturale, fascinoso.
A "Santa Maria dei Longobardi", l'umile e storica chiesetta del suo paese, dedicò un'altra sua poesia, in cui, in un alternarsi di rime, ricorda la dominazione normanna ed il valore del suo antenato trovatore Piero Selvaggi che fu al seguito di Urbano II e seguì in Terrasanta Goffredo di Buglione ed Otto Visconti nella Prima crociata.
Né poteva dimenticare Suor Clarice l'illustre pittor G.B. Rubens Santoro al quale dedicò un simpatico "Scherzo".
Poesia varia dunque, questa di Clarice, varia per argomenti -anche se il religioso domina quasi tutti i suoi versi- vari per stile, e per rime; essa testimonia la maturità artistica della giovane autrice che, attingendo alle proprie sofferte esperienze di vita ed alla serenità del suo cuore di Suora, ha trovato la forza interiore per compiere la sua fatica poetica; poesia semplice e profonda nel contempo, sottile e corposa, sfuggente e concreta, a volta breve ma ben definita, sacra ma non bigotta. Si legge nei versi di Suor Clarice, il perché interiore dell'anima, vi si scorgono le immagini che il cuore a volte è costretto a comprimere, vi si specchiano cieli azzurri di amore, di fede e di speranza.
La "Ghirlandella d?Odicine sacre" ci appare come una finestra aperta su di un paesaggio sereno attravero la quale giungono a noi gli effluvi di un'aria nuova che ci riporta i veri valori della vita a quell'importante funzione di stimolo così necessaria per la costruzione di una comunità sociale migliore.
È intimistica la poesia di Suor Clarice, ma non si chiude in se stessa. Basta leggere certi versi per cogliere elementi di umanità e di trasparenza dove la disponibilità è nel pensiero e nella parola registrata nel momento di proiezione verso il cielo; è un inno agli affetti terreni e celesti, un inno in cui umanità e fede s?intrecciano e ci danno la trama della vita.
È un mesaggio semplice e pulito, è un dono di serenità. È che siamo ormai lontani dalla semplicità e certamente per questo viviamo in una stato di inquietudine. Leggere la raccolta di poesie di Suor Clarice Selvaggi è un ritorno ad un modo di essere e di sentire a cui tutti aneliamo anche se non abbiamo la coerenza di dirlo. Quel "fanciullino" di cui parlava il Pascoli, c?è in tutti noi. Un messaggio pulito ci ha lasciato la nostra poetessa, un invito ad essere semplici per ritrovare noi stessi.
Sottile interprete dei propri sentimenti, ella ha il pregio di aver saputo tradurre l'inconscio interiore e di averlo saputo rendere con una ricchezza di contenuti, in cui sentimenti e sostanza si realizzano, in dimensione umana.
"La Ghirlandella d?Odicine Sacre" è testimonianza dunque, dell'intimo convincimento dell'autrice che, come già detto, attingendo dalla realtà quotidiana delle proprie esperienze di adolescente e di suora, è giunta alla vera e prima dimensione, quella dell'anima che ha trovato la sua forza espressiva, attraverso lo spirito, nella forma poetica.
Per concludere, la poesia di Suor Clarice è senso arcano, desiderio di fanciulla, sogno di giovinetta, messaggio futuro.
È una voce che ci aiuta a vedere meglio in noi, nel nostro essere, nella vita; è una voce che, saputa ascoltare, ci dà certezze vere. Anche per questo dobbiamo esserle grati.

S. Marco Argentano, Biblioteca Comunale, 24-05-2001
Prof.ssa Olga Fiorillo Mulino